di Gianluca Zanella
A quarant’anni dal rapimento (Verona, 17 dicembre 1981) e dalla liberazione (Padova, 28 gennaio 1982) del generale americano James Lee Dozier, abbiamo intervistato alcuni tra i protagonisti di questa vicenda, offrendo uno spaccato poco conosciuto del “dopo-Dozier”, ovvero la vicenda giudiziaria che coinvolse alcuni degli operatori del NOCS che avevano partecipato al blitz nel covo brigatista.
I fatti: una volta in carcere, dopo essere stati arrestati nel covo di Via Pindemonte 2, a Padova, i brigatisti Antonio Savasta, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella, Emilia Libera e Giovanni Ciucci – i carcerieri di Dozier – vengono sottoposti a interrogatorio.
La verità non sarà mai pienamente accertata. Resta il fatto che tra presunte torture (certificate da perizie effettuate in occasione del processo di cui parleremo) e in un clima descritto come quello di una macelleria messicana, quasi tutti crollano. Grazie alle rivelazioni in particolare di Libera e di Savasta, vengono smantellati covi brigatisti in tutta Italia. È una debacle quasi totale. Soltanto uno tra i prigionieri resta fedele alla linea: Cesare Di Lenardo. Sarà proprio lui, infatti, a subire il trattamento “speciale”. Un trattamento denunciato una volta in carcere e che porterà cinque agenti di polizia (tra cui tre Nocs) alla sbarra.
Di questo abbiamo parlato con Carmelo Di Janni, nome in codice “Bimbo”, tra i più giovani operatori Nocs entrati nel covo per liberare il generale Dozier. Di Janni, all’epoca ventiquattrenne, si sarebbe reso protagonista insieme ad altri colleghi dell’oscura vicenda avvenuta nella notte del 31 gennaio, tre giorni dopo il blitz di Padova. Ma cosa è accaduto?
Secondo la ricostruzione del giudice istruttore del Tribunale di Padova, Mario Fabiani – una ricostruzione resa possibile anche grazie a una lettera invita da Di Lenardo al pm veronese Guido Papalia – il brigatista irriducibile sarebbe stato prelevato la notte del 31 gennaio 1982 dalla caserma della Celere in cui era rinchiuso. Da qui, bendato, con mani e piedi legati, sarebbe stato infilato a forza dentro il baule posteriore di una macchina civile, portato in una località sconosciuta, picchiato selvaggiamente e sottoposto a una finta fucilazione. In seguito, Di Lenardo sarebbe stato costretto a ingerire sale grosso e avrebbe subito il Waterboarding, l’annegamento simulato.
Secondo i giudici, il maggior responsabile di tutto questo, quello che avrebbe rivestito il ruolo di principale ispiratore di queste violenze, è Salvatore Genova, il quale: «[…] ha ideato e programmato l’azione criminosa e istigato e determinato i coimputati a commettere i fatti, impartendo loro l’ordine di prelevare il brigatista e quindi consegnandolo loro».
Salvatore Genova, siciliano, all’epoca trentaseienne, commissario della polizia di Stato e all’epoca vice capo della Digos di Genova era il più alto in grado tra gli imputati e, negli anni a seguire, avrebbe raccontato di come la cosiddetta squadra dell’ “Ave Maria” – di cui faceva parte l’ormai noto Nicola Ciocia, soprannominato “professor De Tormentis” – si rese protagonista nel corso di quegli anni di lotta al terrorismo di una lunga serie di violenze e torture. Lo stesso Salvatore Genova che il primo giorno di processo – 5 luglio 1983 – vede stralciata la sua posizione. Il motivo? Pochi giorni prima, il 26 giugno, viene eletto deputato alla Camera nelle liste del Psdi.
Restano alla sbarra con l’accusa di sequestro di persona, tentata violenza privata e lesioni Giancarlo Aralla, 27 anni, tenente di polizia in servizio presso la caserma “Ilardi” di Padova; Fabio Laurenzi, 23 anni; Danilo Amore, 27 anni, e Carmelo Di Jianni, 24 anni. Questi ultimi tre, tutti operatori del Nocs, tutti celebrati come eroi appena sei mesi prima. In aula indossano grandi occhiali scuri, sono cupi, qualcuno dice spaventati. Laurenzi e Di Janni sono poco più che ragazzini.
“Sinceramente non mi ricordo di aver fatto una cosa del genere – ci racconta Di Janni riferendosi alle violenze su Di Lenardo – non ne avrei avuto motivo… quello che mi ricordo è che dopo il blitz, siamo rimasti a Padova un paio di giorni e poi siamo tornati a Roma. Stavo in caserma quando, sei mesi dopo, a me e ad altri cinque arriva un mandato di cattura. Siamo caduti dalle nuvole, non sapevamo il motivo e nessuno è venuto a dircelo. All’inizio, in quanto civili, volevano mandarmi al carcere di Monselice, dov’erano rinchiusi tantissimi terroristi. Per fortuna i nostri dirigenti si sono opposti fermamente e alla fine mi hanno rinchiuso nel carcere di Peschiera. Mi sono fatto undici giorni di isolamento, in una cella dove c’erano i topi… avevo ventiquattro anni, non sapevo di cosa ero accusato… Il presidente americano ci aveva premiati con la medaglia del Congresso e in Italia ci trattavano da criminali. Mi sono sentito tradito, pensavo a Savasta che aveva ammazzato delle persone e mi chiedevo perché anche io venissi trattato come un assassino”.
Nonostante la solidarietà dimostrata dai colleghi, gli agenti alla sbarra si sentono lasciati soli, abbandonati alla mercé di meccanismi che non capiscono e che potrebbero stritolarli. Quello ai Nocs sarà un processo tanto veloce, quanto difficile. L’eco mediatica sarà fortissima, così come le polemiche scaturite da una situazione inedita e – per molti versi – imbarazzante.
Ricorrente nelle cronache di quei giorni l’interrogativo: ci fu davvero violenza sui brigatisti arrestati per il rapimento Dozier o si è trattata di un’abile orchestrazione delle Br per screditare l’operato delle forze dell’ordine e, trasversalmente, giustificare l’emorragia di pentiti divenuta improvvisamente incontenibile? In quei giorni la stampa si divide inevitabilmente tra chi vorrebbe vedere i quattro agenti arrestati e chi invece vorrebbe vederli riabilitati, soprattutto moralmente. Non ci sono mezze misure.
Il 9 luglio, quattro giorni dopo l’inizio delle danze, grosso rumore fa l’arresto in aula e il conseguente processo per direttissima nel pomeriggio di un altro poliziotto, Lucio De Santis, tenente del secondo raggruppamento celere di Padova, che viene accusato di falsa testimonianza dai giudici, nel tentativo di coprire il collega e amico Giancarlo Aralla. Quando viene portato via dai carabinieri, nell’aula si alza un grido “Buffoni” rivolto ai giudici. Il clima si fa ancora più teso alle 18, durante il processo a De Santis. L’aula è gremita, tanti i poliziotti in borghese venuti a dare man forte morale ai colleghi alla sbarra. Gli stessi magistrati sono inquieti, Il pm Vittorio Borraccetti commenta un “che tristezza” riferendosi al comportamento dei poliziotti che gli appare simile a quello degli autonomi.
A conclusione del dibattimento, lo stesso pm dirà: “Questo processo non è la rivincita delle Brigate rosse, è un’ulteriore vittoria dello Stato contro il terrorismo. Di Lenardo è venuto a chiedere giustizia a un tribunale dello Stato italiano, che è stato capace di processare i suoi stessi servitori”. Poi, rivolgendosi verso Di Lenardo: “La tortura è forse stata in qualche modo conseguenza del terrorismo, che ha inasprito le nostre stesse condizioni di vita”. Gli imputati vengono definiti “esecutori di ordini” che si “sentono in guerra” per colpa di “una cattiva educazione, colpa di chi li addestra e li prepara”. C’è amarezza nelle sue parole, ancor di più in aula. Poi arrivano le richieste della pubblica accusa: Due anni ad Aralla, due anni ad Amore, un anno e dieci mesi a Di Janni e Laurenzi. Per tutti, la sospensione condizionale della pena e la temporanea interdizione dai pubblici uffici. Ci si avvia alla conclusione di un processo complicato, dove molto di quanto accaduto, per stessa ammissione del pm, “è rimasto oscuro”: “Non siamo potuti andare più in là di questi imputati, ma siamo convinti che non abbiano agito di loro iniziativa”.
Il 14 luglio 1983, ai magistrati arriva anche la solidarietà dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, che in una seduta del Csm definisce la requisitoria di Borraccetti “un atto supremo di giustizia”.
Il 15 luglio, in un clima di grande tensione, con una delegazione di un centinaio di poliziotti iscritti al Sap (sindacato autonomo di polizia) arrivati in supporto degli imputati, si attende la sentenza. La difesa invoca “lo stato di necessità” e si chiede l’assoluzione piena. Si arriva a sentenza dopo sei ore di camera di consiglio. Gli imputati sono condannati complessivamente a quattro anni e tre mesi. Pene quasi dimezzate rispetto a quanto richiesto da Borraccetti e accusa derubricata da sequestro di persona ad abuso di autorità.
“È stato brutto – conclude Carmelo Di Janni – Dopo l’amnistia, non ce l’ho fatta a restare… nel 1984 sono uscito dalla polizia e nessuno mi toglie dalla testa che quello che ci hanno fatto sia stata una vendetta politica”.
Vendetta politica o meno, a raccontarci il clima pesante di quel periodo dopo la liberazione di Dozier è Vittorio Paganini, entrato nei NOCS dall’agosto 1982 per affiancare in posizione di comando Edoardo Perna e Maurizio Genolini, dopo che un altro dirigente, Andrea Scandurra, se ne era andato: “L’arresto dei ragazzi fu una doccia fredda… una macchia nera che venne a frenare l’entusiasmo per l’enorme risultato raggiunto. Se sia stato uno scontro politico? Teniamo presente il periodo del quale si sta parlando… l’Italia del 1982… non lo escludo. La liberazione di Dozier aveva proiettato il Nocs in una dimensione internazionale… prima del blitz, la morte dell’ostaggio veniva data come altamente probabile. E invece senza sparare un colpo, sei ragazzi hanno compiuto un’operazione da manuale. Vedere alcuni di loro trattati alla stregua di criminali fu un duro colpo, ma paradossalmente fu anche un’opportunità. Per molti mesi il reparto fu come congelato: il momento in cui arrivai io, coincise con uno stallo operativo che ci obbligò a concentrare tutte le energie nell’addestramento. Se prima non c’era mai stato il tempo per far frequentare ai ragazzi dei corsi di specializzazione, per studiare, per formare i nuovi arrivati, adesso ci ritrovavamo tempo a disposizione per fare un salto di qualità impressionante. Il Nocs non sarebbe diventato un’eccellenza qual è oggi senza quel momento di blocco totale. L’arresto dei nostri colleghi ebbe l’effetto di unire ancora di più la squadra e determinante fu l’opera di Maurizio Genolini, che come istruttore era un vulcano di idee. Il salto di qualità lo facemmo sia come gruppo, sia individualmente”.
Terminato lo stallo del “dopo-Dozier”, la prima operazione del rinnovato Nocs fu la cattura del brigatista Alessandro Padula, marito di Christa Margot Frohlich, terrorista del gruppo di Illiz Ramirez Sanchez, alias Carlos, alias Lo Sciacallo. Ma questa è un’altra storia.