di Alessandro Ambrosini

Cosa ci raccontano gli arresti avvenuti due giorni fa in Veneto? Che la Mala del Brenta non è mai morta? Che il mito, di quella che fu la prima organizzazione mafiosa autoctona al Nord, è rimasto incrollabile davanti al passare del tempo? No. In realtà, racconta di un tempo che passa e non torna. Che il tempo trascorso in galera ha sconfitto anche la grana criminale più spessa, più efferata. Che la figura del loro boss, Felice Maniero, non è sostituibile. Non sono gli stessi uomini, che scorazzavano nel Veneto degli anni ’70- ’80- ’90, quelli a cui sono stati chiusi gli “schiavettoni” ai polsi dai Ros. O per meglio dire, lo sono solo se si guarda la carta d’identità. I vari Boatto o Pattarello sono solo i fantasmi di un passato di sangue che li ha portati a scontare pene giustamente pesanti, sono il ” vorrei ma non posso” del crimine.
Rimane la voglia di vendetta nei confronti di Felicetto e di chi si è pentito, rimane la stessa voglia o necessità di sbarcare il lunario con l’unico lavoro che conoscono, il crimine. Rimane la loro ipocrisia, diventata necessità, quando chiedono scusa alle famiglie delle vittime per avere sconti di pena e poter poi tornare a battere le “strade conosciute”. Tornano con trent’anni in più, dagli stessi che taglieggiavano trent’anni prima. E raccolgono briciole. Tornano cercando di sfruttare “il mito” della violenza della Mala, pasticciando ogni loro azione. Rendendosi pericolosamente ridicoli. Perché anche un pagliaccio con la pistola è un pagliaccio pericoloso. Anche se i tempi sono cambiati.

Non sanno usare uno smartphone, tagliano le ruote delle macchine per intimidire, bruciano attività producendo danni ridicoli. A volte, non riescono a farsi consegnare i soldi del “pizzo”. E’ questo che emerge dalle intercettazioni. Un bluff continuo per cercare di mandare segnali all’esterno e all’interno del mondo criminale: “Siamo tornati e siamo quelli di prima”. Un bluff appunto. Che si raccontano sapendo di mentire a se stessi. Quasi autoconvincendosi che il loro potere sia rimasto invariato nel tempo, forse per cercare di legare a sé le nuove leve: piccoli spacciatori, fans pronti a tutto per loro. Probabilmente inadatti ad accettare il rischio di una galera a lungo termine.
Il fatto che “uno che nasce quadrato non può morire tondo”, è una regola quasi certa. L’ho visto e percepito con ogni persona che è stata legata in modo importante a organizzazioni criminali come la Mala del Brenta. La stessa romanissima Banda della Magliana, nei suoi vecchi interpreti, fotografa la stessa situazione. I suoi vecchi sodali, quasi tutti, hanno attività legate all’usura. Come i veneti, hanno nella vendetta verso i cosiddetti “infami”, la stessa spinta dei loro vent’anni. Con più furbizia, accarezzando l’attesa come piacere. In contesti sociali diversi. Portando a termine i loro piani di morte con professionalità estrema e per questo, ancora potenzialmente letali anche se hanno capelli bianchi e sono nonni.

La “nuova Mala del Brenta”, in realtà non esiste. Almeno da quanto si legge dalle carte della Procura. Esistono i reati, la pericolosità di un gruppo che sapeva essere letale. E parlo al passato. Non esiste perché la Mala del Brenta rimane unica nel suo genere, con le condizioni di quegli anni, all’interno di un contesto politico-giudiziario-sociale totalmente diverso e particolare. Dove le loro gesta erano all’interno di un periodo oscuro, fatto d’interessi che s’incrociavano con una parte dello Stato. Quella parte che ha saputo coprire il loro ex boss, oltre ogni ragionevole dubbio. Ed è simpaticamente strano che lo stesso sia stato incarcerato per violenze nei confronti della moglie proprio quando i suoi ex sodali sono usciti dalla galera. Le “menti fini” non vanno mai in vacanza.