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Tra mafia e informazione una gentilezza di troppo. Quando l’intervista diventa strumento delle mafie

di Alessandro Ambrosini
28/03/2019
in Il Patto Veneto, Nord Est, Padova, Usura
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di Alessandro Ambrosini

Quando gli organi d’informazione trattano argomenti di mafia o criminalità organizzata, il dogma per chi scrive o ne parla, è il rigore più assoluto. E’ una regola non scritta e molte volte non seguita da testate giornalistiche e da scrittori che si occupano dell’argomento. Soprattutto quando si ha la possibilità di intervistare qualche “pezzo da novanta”. In Veneto, terra dove l’ambiguità è di casa, queste regole vengono a volte calpestate in nome di un misterioso e vago “secondo fine”che è accettato, e alcune volte usato, anche dalla magistratura veneta. Da decenni.

Il giornalismo, soprattutto quello legato alla cronaca nera, vive d’informazioni e notizie off record. Di fonti in parte anonime e di un lavoro sul territorio che può portare a incrociare gli stessi criminali di cui si scrive. E’ il giornalismo borderline, quello che accarezza il male da vicino e lo racconta nelle sue sfaccettature più profonde. L’unico modo per essere sempre un passo avanti nella folle corsa alla notizia di questi ultimi anni. Un genere d’informazione che però ha delle controindicazioni. Un pericolo latente di contaminazione, involontaria, che porta a lasciare troppo spazio al male stesso. Fino a diventare solo uno strumento dello stesso. La linea è molto sottile e difficile da seguire senza scivolare dalla parte sbagliata. Senza volerlo, cercando solo di “portare a casa il risultato”.

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E’ così, che leggendo le richieste di custodia cautelare del sostituto procuratore di Venezia Roberto Terzo circa il gruppo di “casalesi” che operava nel veneziano, abbiamo riscontrato una piccola anomalia che meritava di essere rilevata. Non parliamo di un reato, sia chiaro. Parliamo di una “scivolata” pericolosa ed eticamente discutibile di un decano del giornalismo veneto: Maurizio Dianese. Da sempre firma autorevole della “nera”sul Gazzettino, presidente dell’associazione Affari Puliti, relatore per Libera e collaboratore del nuovo Centro Studi e Documentazione sul crimine organizzato che aprirà presto a Dolo (Ve). Un giornalista conosciuto a livello nazionale per aver trattato per anni le vicende inerenti la Mala del Brenta e soprattutto il suo boss, Felice Maniero. Dando molto, e forse troppo spazio e voce a Faccia d’angelo, in interviste più o meno utili, sia per quanto riguarda l’interesse collettivo e sia per quanto riguarda l’interesse investigativo. Forma che abbiamo visto recentemente usare, sempre con Maniero protagonista, anche da Roberto Saviano e da qualche gruppo editoriale nazionale.

Dianese, sui “casalesi veneziani”, scrisse dal 2008 senza discontinuità. I fatti e le notizie l’avevano portato ad aprire un focus su questo gruppo di persone che veniva da Caserta con la benedizione di Bidognetti, uno dei nomi che contavano nel clan di Casal di Principe. Un modus operandi normale per chi fa “nera” in modo serio. Cosa che fece inizialmente anche con Felice Maniero, anni prima.
Dianese scrisse tanto sui “casalesi in salsa veneta” che, nel 2011, pubblicò l’intervista al capo di questa “batteria”, Luciano Donadio, su impulso del suo legale, Annamaria Marin (ai tempi della Mala lavorava nello studio dell’avvocato Enrico Vandelli, in seguito arrestato per una certa contiguità extraprofessionale con Felice Maniero), per volontà dello stesso boss. Tutto normale fino a questo punto. E normale lo è anche per i magistrati dell’antimafia veneziana. Meno normale la vide la Guardia di Finanza che, acquisiti i brogliacci delle intercettazioni della Squadra Mobile di Venezia fatte tra il Donadio e l’avvocato Marin, mandò una nota al magistrato. Nota che fu inserita nelle oltre mille pagine della richiesta di arresto per il clan.
Che cosa dicevano le trascrizioni della Mobile veneziana e la nota delle Fiamme Gialle? Perché l’intervista all’esponente dei casalesi assume oggi dei contorni foschi? E’ leggendo quelle telefonate che si capisce, senza ombra di dubbio, che l’intervista fatta da Dianese fu toccata e ritoccata sia da Donadio sia dalla sua legale, prima di essere pubblicata sul Gazzettino. Con il beneplacito del giornalista stesso. Tanto che il boss dei casalesi “veneziani” gli mandò i ringraziamenti tramite l’avvocato per non aver modificato le “modifiche” da lui fatte (erano inerenti ad alcuni nomi fatti dal campano). Donadio fu contento, lesse nero su bianco le sue parole che negarono ogni addebito con il clan di Casal di Principe, che spiegarono in modo esauriente e lacrimevole come finì in carcere per usura qualche anno prima. Giustificò, in modo convincente, ogni accusa che stava circolando in ambienti giudiziari o meno. Anzi, fece di più. In quell’intervista citò dei lavori di ristrutturazione che fece alla Questura di Venezia e all’Ater. Parole che, a pensar male, potrebbero leggersi come “avvisi ai naviganti”. Il “povero piastrellista” di Caserta aveva raggiunto il suo scopo.

Anche Dianese fu contento di quell’intervista. Le sue domande furono giuste, sferzanti al punto giusto. Tanto da dare la possibilità a Donadio di negare ciò che voleva e doveva, dando le sue spiegazioni. Tutte plausibili e ben strutturate. Parole tutte smentite dai fatti che l’hanno portato in carcere a febbraio di quest’anno.

Non c’è reato nel comportamento “gentile e corretto” di Maurizio Dianese. Un comportamento che, solitamente, si usa per interviste a personaggi ben diversi da un boss. Gentilezze che vanno bene per persone oneste. Far correggere le risposte, a chi sai essere un criminale di razza, è una cortesia che travalica il giornalismo borderline e mette l’informazione tra le mani di un boss. Che senso ha intervistare simili personaggi? Noi di Notte Criminale lo abbiamo escluso, da sempre, come forma d’informazione. Per noi, l’arte del giornalismo “di strada” serve a raccontare e investigare senza dare nessuno spazio a chi sai essere un pericolo per la società.

Un’ambiguità, in quell’intervista, che in procura smentiscono o non commentano ma che nelle carte è evidenziata in modo imbarazzante. E’ un macigno che non si può spostare e che deve far riflettere sull’opportunità di intervistare chi fa del crimine una professione e un motivo di vita.

E’ un’ombra pesante quella scesa sul giornalista veneziano. Una doppia verità che lo vede penalmente innocente ma moralmente ed eticamente colpevole. Come per Maniero, dare spazio su un giornale a un personaggio come Donadio, è l’antitesi della lotta alla mafia. Le mafie si silenziano sempre, soprattutto quando cercano facili spot nascosti dietro interviste intrise di bugie.

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